
“Un Conclave già segnato dall’impronta di Francesco, ma non privo di sorprese, dovrà scegliere chi riaccenderà la fede in un’Europa distratta e ricucirà una Chiesa ferita dalle sue stesse polarità.”
L’attesa: un Conclave “programmato” eppure indomabile. Centodieci dei 138 cardinali elettori portano l’anello creato da Jorge Mario Bergoglio: la statistica suggerirebbe continuità. Eppure, se c’è un luogo dove la matematica arretra davanti al vento dello Spirito, è la Cappella Sistina. Là si riapre ogni volta la dialettica tra ordo e kairós: la linea “ratzingeriana” della dottrina come argine e quella “bergogliana” dell’inclusione come ponte. Il successore dovrà abitare entrambi i verbi senza smarrire la Tradizione – che non è museo, ma seme in attesa di nuova terra.
Il lascito di Francesco: luci diffuse, ombre taglienti. In dodici anni il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” ha spinto la parola misericordia al centro del lessico ecclesiale. Tuttavia, lo zelo dell’abbraccio ha portato con sé fenditure inattese. Mentre i social media impazzivano per la “Chiesa in uscita”, i banchi si facevano sempre più deserti, le vocazioni arrancavano e le periferie dell’anima si dilatavano a vista d’occhio. La comunità si è ritrovata spaccata fra chi teme l’evaporazione dell’ortodossia e chi denuncia il ritorno a fortini identitari. Paradosso crudele: predicando l’unità, si sono inasprite esclusioni reciproche.
Occidente scristianizzato: diagnosi senza anestesia. La secolarizzazione non è più notizia; è il paesaggio. Davanti a cattedrali ridotte a set fotografici, il cattolicesimo deve chiedersi se vuole soccorrere una civiltà in apnea o limitarsi a gestirne l’hospice culturale. Il nichilismo quotidiano – non militante, ma stanco – tesse un umanitarismo senza trascendenza. Mettiamola così: la domanda su Dio salta fuori soltanto quando le notizie ci sbattono davanti il muro — guerre, pandemie, buchi nell’economia. Ed è proprio lì che peseremo il prossimo vescovo di Roma: saprà ridare al mistero quella scintilla che ti fa restare a bocca aperta, o si fermerà a gestire — bene, magari, ma pur sempre gestire — i servizi di carità?
Sul tavolo del futuro Pontefice si affastellano cinque cantieri urgenti. Anzitutto fede e spiritualità: occorre ridare tremore al sacro, sottraendo la preghiera alla logica delle performance emotive e restituendole profondità interiore. Poi la dottrina, oggi lacerata tra progressisti e tradizionalisti, che va ricucita con un linguaggio capace di respirare con “i due polmoni” della Chiesa – latino e greco, silenzio contemplativo e parola annunciata. In terzo luogo la missione sociale: il Vangelo non può ridursi a un’ONG globale, ma deve riaffermare la gerarchia dei fini – prima l’annuncio di Cristo, poi, come naturale esito, le opere di carità, educazione e giustizia. Vi è quindi la governance: un clero stanco e laici relegati a spettatori esigono una corresponsabilità reale, con spazi formativi adulti, ministeri femminili e un deciso rilancio vocazionale. Infine la comunicazione: serve abbandonare slogan percepiti come politici e tornare a segni che spalanchino al trascendente, invitando a guardare oltre il semplice “like”.
Il volto atteso: più Padre che fratello. Servirà un Pontefice capace di caricarsi sulle spalle non solo le piaghe dell’umanità – gesto che Francesco ha compiuto con forza simbolica – ma anche il peso, talora impopolare, della verità cristiana. Un padre della fede che precede il gregge indicando la meta, senza limitarsi a “camminargli accanto”. Che sappia parlare al cuore dell’Occidente con la voce del profeta e la tenerezza del medico: guarire la nostalgia della cristianità con il volto vivo del Risorto, non con la malinconia museale di ciò che fu.
Sapete quale è la vera sfida? Ricucire, sì, ma senza spianare nulla. Non si tratta di stare lì a fare da arbitro fra poli opposti—anzi—è tirare fuori quel filo più alto che li abbraccia e li fa combaciare come pezzi dello stesso puzzle. Liturgia tridentina e inclusione dei lontani, difesa della vita e ascolto delle sofferenze sociali: non voci di un referendum interno, bensì tessere di un mosaico che rimanda a Cristo. Solo una leadership verticale – non autoritarismo, ma autorevolezza spirituale – potrà disinnescare la guerra civile fredda fra cattolici.
Dalla parola “fratello” alla parola “Padre”. Se il pontificato di Bergoglio ha fatto risuonare la fraternità sul piano orizzontale, oggi il terreno appare ancor più assetato di verticalità. Non basta dirsi “tutti sulla stessa barca” se nessuno indica il porto. Occorre tornare a nominare il Padre, a rendere Dio nuovamente pensabile e amabile. È il cambio di verbo che potrebbe ridare ossigeno a una fede assopita: da accompagnare a orientare, da accogliere a convertire.
L’ora della decisione. Il prossimo Papa erediterà un patrimonio di gesti profetici e un cantiere disseminato di crepe. Dovrà essere architetto e insieme cardiologo: consolidare le mura dottrinali e riattivare il battito del sacro. Solo allora l’Europa post-cristiana potrà smettere di considerare la Chiesa un reperto per turisti distratti e riscoprirla come luce che ancora osa interrogare il buio. Insomma, la partita è ancora tutta da giocare: da un lato gli algoritmi che ci frugano la testa, dall’altro quei silenzi desertici che dentro di noi si fanno ogni giorno più larghi. E allora ci servirebbe un guardiano, qualcuno che—con voce ferma ma, come dire, carezzevole—tiri fuori quella parola che sembra sparita dalle tasche di tutti. Padre.
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