
Quando il plateau diventa teatro e il formaggio, diretto dalla grande chef di Valence, smette di fare la comparsa.
Un gesto (dolcemente) sovversivo. C’è un istante, a tavola, in cui abbassiamo la guardia. Di solito arriva dopo l’ultima briciola di dessert, quando il cameriere sfila il vassoio dei formaggi e noi, satolli, preleviamo l’ennesimo triangolino “per non far torto alla tradizione”. Anne-Sophie Pic, la prima e tuttora rarissima donna francese insignita delle tre stelle Michelin, gioca invece un’altra partita: toglie l’intero plateau di scena e lascia il palco a un solo interprete, il Saint-Marcellin (IGP nel 2013). È un atto di coraggio—e di seduzione. Qui il formaggio non chiude il convivio: lo inaugura nuovamente, come un preludio che rimette tutto in discussione.
L’abbraccio della foglia di fico. Pic parte da un Saint-Marcellin ancora timido, lo fascia in una foglia di fico (quel verde resinoso che sa di giardino d’estate) e lo immerge a metà nella cera d’api. La pellicola protegge e, insieme, lascia respirare: un’armatura elastica, più che una corazza.
Poi, quattro settimane a 10 °C—un letargo morbido in cui la pasta si abbandona, la crosta si fa più scura e tutto acquista un respiro più profondo. Non c’è fretta: la lentezza è la sua grammatica segreta.
Tre voci, un’unica melodia. Anne-Sophie Pic smonta il Saint-Marcellin e lo ricompone in tre consistenze per spremere ogni sfumatura di latte, fico e miele. Prima la pasta interna, appena scaldata, si fa velluto liquido e abbraccia il palato con note di nocciola e latte fresco; poi una porzione viene montata con panna, trasformandosi in una soffice chantilly salata-dolce che solleva il boccone come un soffio d’aria; infine, le lamelle di crosta, passate in forno a 160 °C finché “cantano”, regalano uno scrocchio tostato con una lieve vena amaricante. Tre registri che s’intrecciano in sequenza—o, se amate il caos creativo, tutti insieme—lasciando in bocca un’eco di fico, cera calda e fieno.
Il perché (e il piacere). Rinnegare il plateau? Macché: riscriverlo. Pic ci ricorda che un grande formaggio contiene già un mondo intero; basta ascoltarlo. La foglia di fico profuma, la cera protegge, l’affinatura cesella. E quando, alla fine, la forchetta raschia l’ultima goccia di crema, vi accorgete che non servono né cracker né confetture: serve solo un momento di silenzio, per sentire tutto il “rumore” che fa il latte quando diventa memoria.
E mentre vi leccate le labbra, un pensiero s’impone: non era un’invenzione di laboratorio, ma un formaggio dei nostri nonni, solo messo in scena con l’eleganza di chi sa che la semplicità—quando è vera—non ha bisogno di effetti speciali.
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