
“Cronaca, cultura dell’immagine e responsabilità condivise in un Paese che pretende pene esemplari ma rifugge la prevenzione.”
Un silenzio che fa rumore. Martina – aveva quattordici anni. Lui (il carnefice), diciannove. Un amore in miniatura che si è rovesciato in tragedia, l’ennesima di quest’anno: più di quindici donne già uccise da gennaio, secondo il consueto bollettino di cronaca nera. Ogni notizia dura il tempo di una notifica push: scorre, colpisce, scompare. Il dibattito, invece, resta impantanato nella solita palude di spiegazioni lampo: la scuola che “non educa”, i genitori che “non vigilano”, la società che “non ha più valori”. Ricette prêt-à-porter da talk-show, pronte per il prime time.
Il dito e la luna: il disegno di legge “bandiera”. In questo clima, il Governo ha estratto dal cilindro il reato autonomo di femminicidio. Sulla carta, un gesto “forte”; nella pratica, un provvedimento che ottanta giuriste – penaliste di tutta Italia – bollano come propaganda: manca la parte sulla prevenzione, manca la formazione degli operatori, mancano le risorse per i centri antiviolenza. Punire più duramente chi uccide la donna “in quanto donna” è sacrosanto, dicono; farlo senza un piano che riduca il rischio prima dell’omicidio è come apporre un cerotto dorato su una ferita infetta. Siamo di fronte a quella che potremmo definire la “giustizia spettacolo”: si promette l’ergastolo, mentre si risparmia sulla manutenzione dei ponti che crollano a monte.
Una cultura d’urto: soldi facili, schermi veloci. Domandiamoci con onestà: qual è il brodo di coltura che rende plausibile la ferocia di un ragazzo di diciannove anni? Viviamo in un ecosistema mediatico che premia la reazione più immediata, la foto più patinata, la scorciatoia più redditizia. Nei reality, la relazione è spesso performance, la gelosia uno strumento di share, la donna un premio da esibire. Non è moralismo, ma statistica: studi italiani sulle pubblicità dedicate ai minori mostrano come la sessualizzazione precoce e l’oggettificazione del corpo femminile avvelenino la percezione di sé e dell’altro già in età scolare. Se a tutto questo aggiungiamo il diluvio di tutorial su “come diventare influencer in 24 ore” – con gadget di ultima generazione come sigillo identitario – otteniamo la miscela perfetta: desiderio di possesso + frustrazione per il fallimento = violenza potenziale.
La catena di montaggio dell’odio. Il telegiornale annuncia l’omicidio; a ruota, il talk riproduce la scena con plastici e ricostruzioni 3D; poi arriva il tribunale social, dove la sentenza la fanno i like. Ogni livello aggiunge volume, non profondità. E mentre le telecamere setacciano il cortile della vittima, interi quartieri restano privi di presidi territoriali: centri d’ascolto, sportelli psicologici, educatori di strada. L’Osservatorio nazionale Non Una di Meno conta 27 femminicidi soltanto nei primi cinque mesi del 2025, una scia che non si arresta nonostante l’inasprimento progressivo delle pene. Il corpo femminile, ridotto a talk-prop, viene smontato a tavolino sotto i riflettori; la rabbia maschile, se non trova argini, diventa gesto irreparabile.
Cinque piste concrete (e imperfette). ‘Educazione affettiva obbligatoria’ in ogni ordine di scuola, scritta da pedagogisti e non da opinionisti di prima serata. ‘Finanziamento stabile’ ai centri antiviolenza, con un meccanismo di verifica annuale sull’efficacia dei programmi. ‘Formazione multidisciplinare’ per forze dell’ordine e magistratura: riconoscere la violenza di controllo prima del primo schiaffo. ‘Responsabilità editoriale’: un codice di autoregolamentazione che limiti l’uso del corpo femminile come mero espediente di audience. ‘Parità salariale e autonomia economica’: il ministero del Lavoro stima che l’indice di dipendenza economica sia correlato al rischio di violenza domestica. Dare libertà di scelta significa ridurre la quota di potere di chi abusa.
La responsabilità diffusa (che non assolve nessuno). Qui non si tratta di additare un unico colpevole. Responsabilità – una parola usurata ma insostituibile – implica l’intreccio: il padre che normalizza la battuta sessista, il dirigente scolastico che definanzia il laboratorio teatrale ma compra i banchi a rotelle, il pubblicitario che associa il successo alla silhouette, il politico che confeziona decreti à la carte. Ognuno di noi, nel proprio microspazio di influenza, può alimentare o smontare quella “cultura dello scarto” che fa della donna un accessorio sostituibile.
Objec-TV-fication: spegnere il riflettore, accendere la coscienza. C’è un filo rosso che lega la oggettificazione televisiva alla percezione – da parte di molti adolescenti – che il “no” sia negoziabile. La ricerca accademica parla chiaro: più esposizione a contenuti che riducono la donna a superficie estetica, maggiore l’adesione a miti che giustificano la violenza di genere. Il problema non è la pelle mostrata, ma l’assenza di contesto che la renda soggetto e non oggetto. Se la tv trasmette un reality dove “scelgo” o “elimino” chi corteggio come fosse un’app, il confine tacito fra persona e cosa si assottiglia. Ed eccoci al punto: un quattordicenne diventa “cosa” perché un diciannovenne l’ha percepita come tale.
Meno decibel, più ascolto. Chiudo con un’immagine volutamente semplice: la giustizia è come un’eco dentro una valle. Se urliamo tutti insieme, il suono si confonde e non capiamo nulla; se ci fermiamo un istante, possiamo distinguere ogni riverbero e riconoscere da dove proviene. Serve silenzio fertile, non mutismo complice. Serve far sedimentare i fatti, separare il dolore autentico dalla narrazione-fast-food. Soprattutto, serve prevenzione, parola sobria che non fa share ma salva vite.
“Non c’è pena che compensi l’assenza di cura”. È una frase che non troverete nei titoli di nessun talk-show, ma potrebbe essere il primo rigo di una rivoluzione culturale.
Agite adesso: spegnete il televisore che trasforma il dolore in cliffhanger, chiedete alla scuola dei vostri figli quale percorso affettivo propone, sostenete un centro antiviolenza del territorio. La partita non si gioca nei tribunali televisivi, ma nelle scelte quotidiane di ciascuno di noi.
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