
“Diciotto anni dopo l’assassinio di Chiara Poggi, l’inchiesta di Garlasco riemerge nella sarabanda dei riflettori: più che cercare la verità, sembra volerci nutrire di suspense. Ma la sete di spettacolo rischia di erodere il fondamento stesso del diritto.”
La sentenza che non placa il dubbio. La Corte di cassazione ha già consegnato Alberto Stasi a sedici anni di reclusione, approdando a quell’esito dopo due precedenti assoluzioni e perfino con il parere perplesso dell’accusa generale. Una condanna dunque definitiva, ma non “oltre ogni ragionevole incertezza”, tanto che la discussione sulla colpevolezza resta viva nel tessuto civile più di quanto non lo sia nei codici.
Diciotto anni, un tempo che logora e rafforza. Era il 13 agosto 2007. Da allora sono passate quasi due decadi: abbastanza per corrodere ricordi e prove, abbastanza perché la scienza forense raffini gli strumenti d’indagine. Riaprire il dossier può avere senso solo se si accetta l’austerità del metodo, non la piroetta dello scoop permanente.
Il diritto alla quiete dei coinvolti. Ogni persona che gravita intorno a un’indagine merita di non essere triturata nel mulino di ipotesi che rimbalzano tra social e salotti televisivi. Il principio di presunzione di innocenza, lungi dall’essere un tecnicismo, è il baluardo che protegge la dignità di chi finisce – magari per un’ombra di sospetto – sotto le lenti di telecamere e tastiere.
La giostra mediatica e le sue fughe di notizie. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a periti che anticipano esiti di test, avvocati che duellano davanti al tribunale come influencer d’assalto, investigatori vecchi e nuovi che distribuiscono indizi a orologeria. Ogni rivelazione a metà, ogni indiscrezione “soffocata” dal condizionale, produce un paradosso: più si invoca trasparenza, più si offusca la rotta dell’indagine.
Il ruolo non delegabile della Procura. Spetta ai magistrati di Pavia, titolari dell’inchiesta, frapporre un argine: secretare gli atti quando serve, parlare solo dopo aver definito ruoli ed evidenze, sottraendosi alla tentazione di “sparare nel mucchio” sperando che qualcuno cada. Un’azione necessaria non solo per rispetto verso la vittima e i familiari, ma per difendere la credibilità stessa della giustizia dagli assalti dell’audience.
Silenzio come prerequisito di verità. Il processo-spettacolo promette lacrimoni facili e tonnellate di spot venduti, ma la giustizia—quella vera—non sopporta i montaggi da trailer. Serve più silenzio, quel vuoto che lascia sedimentare i fatti, far maturare le prove, far riaffiorare errori vecchi e nuovi senza fanfare. Solo lì il giudizio penale torna ad assomigliare a una caccia onesta alla verità, al riparo dalla bulimia di share che rischia di rosicchiarne le fondamenta.
Non si tratta di riaprire o chiudere l’ennesimo caso-simbolo: la partita vera è difendere quel fragile equilibrio tra diritto di sapere e dovere di giudicare. Se lo perdiamo, l’aula diventa un teatrino e noi—spettatori con lo smartphone alzato—scambiamo la verità per un applauso a scena aperta.
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