
“Una lettera pubblicata oggi (13 maggio) su L’Adige a firma del Cons. Claudio Cia, ex esponente di Fratelli d’Italia ora al Gruppo Misto, difende il recente via libera al terzo mandato per il presidente della Provincia invocando l’autonomia trentina contro presunte ingerenze romane. Un intervento che, anziché argomentare nel merito, brandisce l’Autonomia come clava e sembra più animato dal risentimento di chi ha lasciato il partito che da una visione politica coerente sul significato dell’alternanza democratica.”
Un rumore di fondo: il rancore trasformato in dottrina. C’è un filo sottile che divide la critica legittima dal regolamento di conti. Lo percepisci nel lessico che si fa sempre più moralista, nelle citazioni storiche inserite a mo’ di santino – “Napoleone”, “dominio”, “arroganza” – e soprattutto nell’ossessione per chi oggi ricopre la poltrona che ieri era considerata casa propria. È il caso della lettera pubblicata oggi (13 maggio) su L’Adige a difesa del famigerato terzo mandato in Trentino: un testo che, anziché argomentare, brandisce l’Autonomia come clava e scambia la politica per risarcimento emotivo.
Ma un sistema democratico non è un divano dove ci si adagia per tempo indefinito. È, semmai, un tamburo che scandisce alternanza e controllo. Il nodo, dunque, non è se Maurizio Fugatti – o chi per lui – meriti di restare. Il nodo è stabilire quanto un mandato possa prolungarsi senza trasformare l’elezione in consuetudine, il consenso in cuscino di piume.
Alternanza come tecnica anti-feudale. Mettiamo in fila i dati. Due legislature piene equivalgono a: dieci anni di cabina di regia – un arco politico che, nel mondo fluido di oggi, vale un’era geologica; un pacchetto di potere amministrativo tale da creare cordate, fedeltà, rendite; la sensazione, per il cittadino medio, che l’istituzione si identifichi definitivamente con la persona che la guida.g
E allora sì: un tetto ai mandati non toglie sovranità al corpo elettorale; evita piuttosto che la sovranità si addormenti fra le pieghe del “si è sempre fatto così”. In termini filosofici potremmo dire che la democrazia non è esonero dall’angoscia della scelta, ma permanente capacità di ripensare il limite.
Centralismo? Un fantasma comodo. Chi grida al pericolo “centralista” di Fratelli d’Italia dimentica due circostanze elementari: Il Governo attuale ha aperto al confronto serrato con le Regioni sul PNRR e sull’Autonomia differenziata – tavoli politicamente costosi, se davvero l’intento fosse calare decisioni dall’alto.
Il medesimo esecutivo ha rilanciato il premierato elettivo, riforma che sposta il baricentro della legittimazione verso il cittadino, non verso i corridoi ministeriali.
Il sospetto, quindi, è che l’accusa di “romano centralismo” serva più a occultare un disagio locale – la prospettiva di perdere la guida della Provincia – che a descrivere un progetto autoritario.
L’Autonomia non è patente di eternità. L’autore della famigerata lettera, fuoriuscito da FdI dopo qualche mese di militanza, giusto il tempo per essere eletto, riscopre all’improvviso la vocazione autonomista. Benissimo. Ma l’Autonomia – quella vera – non coincide con la possibilità di rieleggere lo stesso volto ad libitum. Anzi, la nostra storia regionale, puntellata da Statuti speciali e da un faticoso compromesso culturale, insegna che l’autogoverno prospera quando: nessun incarico diventa vitalizio; le generazioni emergenti percepiscono uno spazio reale in cui misurarsi; la dialettica non si riduce a diatriba fra chi è “dentro” e chi è stato “messo fuori”.
Rancore personale o ragion politica? Qui l’argomento si fa spinoso. Se l’ex-iscritto di FdI è stato espulso, le ragioni – disciplinari, politiche, umane – sono storia nota negli ambienti consiliari. Che oggi egli si erga a giudice supremo della coerenza altrui lascia trasparire il proverbiale dente avvelenato.
Eppure il rancore, quando si traveste da pamphlet, non produce verità: produce cortine di fumo. Si liquida la questione del ricambio con la caricatura del “feudo romano”, quando il nodo è semplice: dopo dieci anni, hai il dovere di restituire il potere alla gara aperta.
Il vero banco di prova. L’esperimento trentino, allora, diventa spartiacque per la politica nazionale: Se passa il limite ai mandati, la Provincia si trasforma in laboratorio di un rinnovato costume repubblicano: guidare è servizio, non appropriazione. Se salta il limite, si legittima l’idea che l’Autonomia equivalga a una carta bianca illimitata. E l’istituzione finisce per assomigliare a quelle corti ottocentesche dove il sovrano, alla terza reincoronazione, non distingueva più tra sé e il trono.
Conclusione (provvisoria): il lusso della discontinuità. La democrazia, diceva qualcuno, è “autolimitazione in atto”. Ecco perché – al netto di simpatie o tessere di partito – la scelta di Fratelli d’Italia, oggi, punta nella direzione giusta: ricordare che il potere ha data di scadenza e che la reputazione di un territorio non si costruisce sulla permanenza, ma sulla capacità di generare classe dirigente nuova.
Se l’Autonomia dev’essere responsabilità e non rendita, il terzo mandato può attendere. E chi urla allo scandalo forse dovrebbe, prima di tutto, misurare la distanza fra la propria biografia politica e le requisitorie che adesso firma con tanta foga. La critica è sacrosanta; la coerenza, però, resta misura minima di credibilità.
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