
Ho riletto e ascoltato più volte l’appunto di Aldo Grasso sul Corriere della Sera—e l’ho trovato, lo confesso, utile e intrigante. Non perché offra la soluzione al vizio nazionale di divorarci il vicino, ma perché illumina di taglio quel teatro d’ombre che chiamiamo ancora televisione. Il quadro è chiaro: l’ultimo spostamento di Milo Infante dal pomeriggio al prime time non è un banale riassetto di palinsesto, è la conferma che lo spettacolo del delitto ha divorato ogni altro genere, colonizzando la fascia nobile con la ferocia del mercato maturo—quando non restano che gli avanzi del giorno prima, si punta dritti all’istinto.
Il rito del colpevole necessario. Ogni format crime ruota intorno alla domanda più antica del tribale: «Chi deve pagare?». Non importa davvero se l’imputato sia innocente o colpevole; importa che sia disponibile a incarnare il ruolo del capro espiatorio, a reggere sulle spalle l’ansia collettiva di un corpo sociale che non riconosce più il proprio male. È una regressione che puzza di focolare primitivo: cerchio chiuso, canti rituali, pietra pronta a colpire.
Qui non serve scomodare Girard per capire che la giustizia mediatica – diversamente da quella togata – non cerca verità, ma pacificazione istantanea. Il pubblico, stretto in salotto come attorno al totem, vaga tra canali inseguendo l’ultima notizia “esclusiva” (parola che smentisce sé stessa dopo cinque minuti, non appena un altro network alza il volume).
Gli avvocati-influencer e la bolla dell’opinione. Il paradosso si compie quando gli operatori del diritto—difensori, consulenti, perfino magistrati pensionati in odor di share—diventano volti familiari del varietà giudiziario. Il loro ingresso in scena non è neutro: farsi personaggio significa cedere alle regole della fiction, dove la suspense vale più della perizia e, soprattutto, si parla prima dell’aula e fuori dal fascicolo. Ne nasce un effetto eco che minaccia l’imparzialità del dibattimento: il processo vero, già tortuoso, si trova imbrigliato nella necessità di rispondere alla narrazione televisiva, come se la sentenza dovesse innanzitutto placare l’indice social.
Dalle tricoteuse alla timeline. Durante la Rivoluzione francese le dame della ghigliottina—le famigerate Tricoteuse—sferruzzavano in attesa che la lama calasse. Oggi abbiamo scambiato ferri e gomitoli per smartphone e hashtag, ma la postura è identica: attendere il momento della condanna, scrollare per vedere se “la testa” è finalmente rotolata. È l’estetica di una crudeltà sorvegliata, a costo zero, che non sporca le mani e rassicura l’ego: io non sono l’imputato, dunque io sono salvo.
Il segno decadente di un impero dell’audience. Che tutto questo accada mentre l’audience tradizionale crolla e le piattaforme divorano minuti di attenzione indica un dettaglio non trascurabile: il crime consolida l’ultimo frammento di ritualità condivisa. È la festa dell’ultima ora, il banchetto sul ponte della nave che imbarca acqua. Chi, se non il reo designato, può legittimarci nella parte dei giusti?
Eppure, in questa corsa all’ultimo verbale, si rivela la stanchezza di un modello culturale incapace di produrre altro che la ripetizione di sé: talk che mimano altri talk, corpi di vittime moltiplicati come avatar, litania di esperti al confine fra psicologia da supermercato e divinazione catodica.
Riscattare la complessità. Forse la via d’uscita non è il luddismo mediatico né la nostalgica richiesta di «più cultura in tv» (parola abusata quasi quanto “esclusiva”). Piuttosto, occorre disarmare lo sguardo: ricordarci che la realtà giudiziaria vive di tempi lunghi, di documenti opachi, di dubbi irriducibili alla logica binaria innocente/colpevole. Significa accettare l’incompiutezza, il grigio, persino l’ambiguità morale di chi siede dall’altra parte dello schermo—e nostra, se solo avessimo il coraggio di ammetterlo.
In fondo, basterebbe un gesto minuscolo ma sovversivo: cambiare canale. Non per censurare, ma per dichiarare che il godimento della testa mozzata non ci soddisfa più; che preferiamo la fatica di un pensiero non già digerito, la lentezza di un processo che, prima di decidere, ascolta. È un atto di responsabilità civile, prima ancora che estetica.
E se proprio avremo nostalgia di drammi forensi, potremo sempre tornare ai classici—da Perry Mason a Léviathan—dove la colpa è pretesto per interrogare l’anima, non manganello per stordire la sera. Perché la tv può anche educare, purché smetta di offrirci il sangue come unica clessidra per contare i minuti d’ascolto.
Il resto dipenderà da noi: scegliere se restare tricoteuse 2.0 o cittadini capaci di guardare oltre il piccolo schermo, là dove la legge non è reality, ma fragile invenzione di convivenza.
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