«Ogni volta che spostiamo lo sguardo, qualcuno ha già apparecchiato la scena altrove.»

Quel frastuono che finisce per zittire perfino il silenzio. C’è un brusío ipnotico che ondeggia tra i palinsesti televisivi, un ronzìo denso di dettagli morbosi, colpi di scena riciclati, interviste in loop. Lo chiamiamo “cronaca nera d’annata”, ma è, più di tutto, un gigantesco schermo di fumo. Mentre la platea trattiene il fiato davanti al racconto di un delitto datato, ciò che davvero pesa sul presente – sprechi di denaro pubblico, corsie preferenziali, voti di scambio – scivola lontano dai radar.

Eccola, l’arma di distrazione di massa: abbaglia, commuove, fa battere i pugni sui tavoli di casa, ma alla fine anestetizza. In superficie sembra un tripudio di vetro e chiarezza—trasparenza allo stato puro, no? Ma appena scavi un po’, scopri un minuetto di omissis, rinvii e pratiche spedite dritto in archivio.

La geometria dello “scandalo che torna utile”. Due fatti—sentenze, timbri, carte bollate—galleggiano ma restano sotto il pelo dell’acqua. Perché? Semplice: non fanno numeri, non saziano quel palato un po’ voyeur in cerca di sangue sull’asfalto o della lacrimuccia facile. Gli errori strutturali nei conti di un ente pubblico, le spinte di un faccendiere a caccia di favori? Roba da tecnici, non da prime time.

Così il faro scivola altrove, su un cold case masticato mille volte, riesumato come fosse breaking news. Il copione è elementare: più una notizia brucia nei piani alti, più viene rimpiazzata da una tragedia impacchettata in formato soap opera. Niente complotti—basta l’inerzia del mercato dei clic. L’indignazione che non garantisce share? Retrocessa a nota in fondo pagina.

E allora ecco la domanda che brucia: quanta colpa abbiamo noi, spettatori assetati di pathos, in questo gioco storto? Ci consoliamo pensando di essere solo vittime, mai complici. Eppure, ci tuffiamo con gusto nelle dirette fiume, digitiamo commenti a caldo, spargiamo meme come coriandoli. Ogni nostro tap è una moneta inserita nel jukebox dell’informazione edonistica. Così, mentre l’etica pubblica si assottiglia, noi brindiamo al prossimo colpo di scena seriale.

La retorica dell’“ho il diritto di sapere” si trasforma in “mostrami ciò che mi intrattiene”. Il rischio? Perdere la sensibilità alla corruzione vera, quella che prosciuga scuole, ospedali, tutele sociali. Le cifre spariscono nell’astrazione; restano solo volti di attori improvvisati, lacrime di repertorio, ricostruzioni in computer grafica.

Esigere complessità, abitare l’incertezza. Non esiste vaccino semplice contro questa epidemia di luce stroboscopica. Esiste, però, un esercizio di igiene mentale: coltivare l’attenzione critica. Significa sostare sui dati, scavare nei documenti, pretendere domande scomode anche quando lo share trema. Significa rifiutarsi di sostituire la realtà con il suo fotoromanzo.

Certo, è faticoso. È più facile lasciarsi cullare dal coro, credere che “tanto sono tutti uguali” o, peggio, che “non cambia niente”. Ma ogni rinuncia di pensiero è un centimetro regalato a chi traffica nell’opacità. E ogni centimetro, sommato all’altro, diventa il chilometro che separa la polis dalla fiducia dei cittadini.

Un invito, non un sermone. Non serve l’ennesimo moralismo, serve uno sguardo allenato. Smettere di chiedere “Chi urla più forte?” e cominciare a chiedere “Cosa si vuole coprire con questo urlo?”. Fare rete – quella vera, non il reticolato di rabbia social – e riaccendere la discussione sui nodi strutturali: trasparenza dei partiti, tracciabilità dei fondi, salvaguardia dei controlli democratici.

Se togliamo potenza all’arma di distrazione, resta la nuda verità: qualcuno ha giocato con le nostre risorse, qualcun altro ha visto e ha taciuto, molti hanno preferito voltarsi. Riconoscere il meccanismo è il primo passo per disinnescarlo. Il secondo è ricordare, ogni volta che il tamburo di un vecchio caso ricomincia a battere, che forse – proprio in quel momento – nelle retrovie si tenta l’ennesimo colpo di spugna.

Lasciamo allora che l’eco dell’antico delitto resti dove deve stare, negli archivi della giustizia e nella memoria di chi ha sofferto. E riapriamo, con ostinazione, i dossier che contano oggi, qui, adesso. Perché la democrazia, al contrario delle serie tv, non va mai in replica.

“Indignarsi non basta; occorre indirizzare l’indignazione. Solo così l’arma di distrazione di massa inceppa il proprio grilletto.”

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