Dalle bollicine di moda in una gintoneria milanese fino alle notti dorate fra Andalo e Trento: la parabola di un Nord-Est che, sotto la neve da cartolina, ospita coca, lingotti, manager compiacenti e un sistema pubblico scivolato nell’opacità.

Il luccichio che abbaglia. C’è un gesto che sintetizza l’intera vicenda: la sciabolata. Si impugna la lama, si colpisce il collo della bottiglia di spumante (che deve avere una temperatura obbligata di +6°…), il vetro cede, la schiuma esplode. È spettacolo, è virale, è record di like. Da Milano a Andalo, passando per Trento il movimento è identico, e non stupisce che l’eco delle gesta di Davide Lacerenza – il “maître” divenuto influencer a colpi di sabrage e gin da tre cifre – abbia indicato la strada a un’intera generazione di piccoli aspiranti Gatsby alpini. La coreografia della ricchezza rapida e urlata diventa così l’architettura simbolica di un potere parallelo: se la bottiglia vola, tutto vale.

In pochi anni il gesto scenico si fa grimaldello commerciale: abiti sartoriali, supercar in leasing, stories girate sui passi dolomitici. Finché, inevitabile, l’immagine si ribalta. Dietro la lama che affetta il vetro appaiono tracce di una sostanza più bianca dello spumante: cocaina. Il riflesso del lusso portato in trionfo attira investigatori, intercettazioni, sequestri. Il brindisi di cartapesta rivela la sua vena tossica.

Dal Naviglio all’Adige: la lenta migrazione dello scandalo. Quando la Guardia di Finanza irrompe nella Gintoneria di Milano, le cronache riempiono pagine e talk show e tutti – con l’aria del savio che già sapeva – scuotono il capo: «È la metropoli, bellezza, lì funziona così». Ma la novità di quest’ultima inchiesta, battezzata Sciabolata, è il cambio di zip-code: la Lombardia multietnica e iperconnessa cede la ribalta alle valli trentine, patria del turismo famigliare, dei bilanci virtuosi e del brand «qualità della vita».

Sotto le croci di ferro che scandiscono le malghe, raccontano gli atti giudiziari, girano pacchi di polvere venduta come zucchero d’alta quota. Lingotti d’oro sorvegliati in caveau improvvisati, passaggi di denaro contante negli spogliatoi di boutique d’hotel. Tutto con una bussola infallibile: ostentare. Perché il segreto dell’illegalità di successo è non nascondersi, ma farsi desiderare: aprire locali «instagrammabili», sponsorizzare after-ski in cui brillano Diamant Brut e Porsche Cayenne.

La differenza con Milano? Lì la folla miscela e diluisce. Qui il territorio è ristretto: le piste sono due, i ristoranti dieci, le voci girano. Eppure, niente ha fermato l’ascesa della famiglia Agostini, clan imprenditoriale che – dicono i magistrati – ha trasformato hotel, ristoranti e chalet in filiere di riciclaggio. Un impero che, come i ghiacciai delle vette, sembrava eterno e invece si scioglie all’improvviso.

Lingotti, cocaina e manager. Il dettaglio più sconcertante non è la droga – la si trova sui tavolini delle discoteche di mezza Europa – bensì il ponte d’argento che collega interessi privati e cosa pubblica. In fondo, un lingotto resta anonimo finché qualcuno non lo fa diventare permesso, licenza, appalto.

Così scopriamo, dalle intercettazioni, il vezzo di certi dirigenti che non si accontentano di una conferenza stampa: pretendono spa chiuse al pubblico, massaggiatrici scelte, suite di lusso. Dentro quella cornice opulenta si disegnano bandi su misura, si rivedono regolamenti urbanistici, si perfezionano passaggi societari che farebbero arrossire un manuale di diritto amministrativo. Una catena di favori che travolge pure un’autorità portata a esempio di rigore alpino.

E mentre scorrono le cronache dell’ex sindaca di Riva del Garda – naufragata in un gorgo d’interessi immobiliari – e quelle sul magnate austriaco René Benko, re di grandi magazzini e finanza creativa, si capisce che il pericolo non viene dalla giungla urbana, ma dall’illusione di immunità coltivata dietro il sipario delle Alpi.

La memoria corta dell’opinione pubblica. Gli stessi titoli che oggi gridano allo scandalo parevano già scritti quattro anni fa, quando l’inchiesta Perfido svelò la prima vera infiltrazione ‘ndranghetista nella regione. Ci raccontammo allora che era episodio isolato, che il sistema di controlli aveva reagito, che la società civile si era vaccinata. Oggi le sciabolate ci rammentano che la lezione non è stata interiorizzata.

Perché il Trentino – laboratorio di autonomia speciale, patria di solidarietà cooperativa – è diventato un campo di sperimentazione ideale per un’economia grigia: agevolazioni fiscali, burocrazia frammentata, ricchezza diffusa. Un ecosistema perfetto per mimetizzare il denaro sporco nell’edilizia di pregio, nel turismo di lusso, nei liquidi investimenti crypto-finanziari. In compenso, la narrazione pubblica resta aggrappata all’immagine del maso ordinato, dei tassi di criminalità sotto la media, dell’onnipotente efficienza germanico-ladina.

Da qui la nostra cecità. Quando un ferrarese spaccia a Torino è cronaca. Quando un imprenditore locale, nato e cresciuto in parrocchia, moltiplica a dismisura patrimonio e follower, si applaude all’ingegno. Il provincialismo trasforma il sospetto in invidia, l’indagine in diffamazione, la critica in «attacco al sistema turistico». Fino al giorno in cui i sigilli giudiziari chiudono spa e conti correnti: allora la collettività scopre di non essere vittima, ma parte in causa.

Dentro le crepe del mito trentino. A ben vedere, l’intera faccenda non riguarda solo reati in senso stretto. È questione di identità. Il Trentino, più di altre regioni, ha eretto la propria autorevolezza sulla percezione di diversità morale: efficienza pubblica, bilanci comunali in attivo, welfare di prossimità. Ma i fatti di Andalo e Trento mostrano come lo scheletro dell’etica civica possa incrinarsi sotto la pressione del denaro facile.

Se ogni sciabolata rappresenta un colpo inferto alla bottiglia, allo stesso modo ogni «favore» offerto a un manager compiacente è un colpo inferto alla fiducia collettiva. L’autonomia speciale – quell’architettura politico-istituzionale che avrebbe dovuto proteggere il bene comune – rischia di diventare alibi per l’autoreferenzialità. «Siamo diversi, dunque immuni»: la categoria antropologica dell’eccezione diventa l’oppio che stordisce la vigilanza.

Rovesciare la clessidra: come uscire dal cono d’ombra. Verranno i processi, le condanne, forse qualche assoluzione. Verranno le commissioni d’indagine, le interrogazioni provinciali, la retorica del «dobbiamo fare chiarezza». Cose necessarie ma non sufficienti. Perché la criminalità economica, come la bamba che cavalca la sciabolata, prospera dove la società promette impunità mediatica: basta il sorriso, l’hashtag, la frequentazione giusta.

Occorre dunque capovolgere l’ordine dei fattori. Non prima la sentenza e poi l’etica, ma l’etica che precede il mercato; non il brand territoriale come foglia di fico, bensì la manutenzione costante dei processi decisionali. In altre parole, riaprire il fascicolo della cultura civica. Chiamare i commercialisti a parlare di antiriciclaggio nei licei turistici. Far sedere gli albergatori ai tavoli di prevenzione con forze dell’ordine e sindacati. Rispolverare, nel DNA cooperativo, l’antico principio di mutua sorveglianza: «il successo del vicino è anche mia responsabilità».

La lama, il vetro, la scelta. Alla fine, resta il gesto simbolico. Ogni volta che una sciabola spacca il vetro, si produce un microscopico istante di sospensione: il suono è secco, la schiuma sale, il pubblico trattiene il fiato. È proprio lì che il Trentino, e con esso l’Italia intera, si trova adesso. Sospeso tra l’ammirazione per il luccichio e il timore di ciò che esso nasconde.

Potremmo continuare a filmare l’istante, a sognare l’eternità del calice pieno di successi facili. Oppure potremmo usare il medesimo istante per guardarci allo specchio e decidere che il vetro rotto non è soltanto spettacolo, ma richiamo alla responsabilità. Perché dove si celebra una ricchezza senza radici, si apre sempre la porta all’illegalità. E perché nessuna neve, per quanto candida, potrà mai imbellettare lo sporco che scegliamo di ignorare.

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