“Dall’acciaio di una chiave brandita in nome dell’ideologia al candore rassicurante dei reparti ospedalieri: la parabola di un martirio che interroga ancora la coscienza civile.”

Il lampo accecante del 1975. C’è un pomeriggio d’inizio primavera in cui Milano smette di essere soltanto la capitale dell’industria e diventa teatro di un rito cruento. È il 13 marzo 1975 quando un diciottenne con i capelli sulle spalle—Sergio Ramelli—viene accerchiato da giovani che agiscono in nome di una militanza “operaista” pronta a tradurre la dialettica in percussione cranica. Non è un duello tra pari: è un linciaggio, consumato sotto casa, mentre il ragazzo sistema il suo motorino. La scena è rapida, come certi abbagli che durano un secondo ma ti perseguitano tutta la vita. Il metallo tedesco di una chiave a tubo pesa più di qualunque discorso sull’antifascismo militante: frantuma ossa, disperde sangue, condanna a quaranta giorni d’agonia prima del decesso.

Simbolo involontario di un’epoca scissa. Ramelli diventa subito altro da sé. Per la gioventù di destra—che allora frequenta seminterrati di provincia più che talk-show—egli incarna la prova che la democrazia italiana è schizofrenica: predica la pace sociale e tollera la violenza quando il bersaglio reca l’etichetta sbagliata. Per una certa borghesia progressista, invece, l’accaduto resta sullo sfondo, quasi fosse rumore bianco in mezzo a tanti conflitti. Soltanto dodici anni dopo la giustizia scoperchierà ciò che tutti, più o meno, avevano intuito e taciuto: nomi, cognomi, matricole universitarie e—sorpresa—futuri titoli accademici.

Dalla militanza alla carriera: la muta eleganza dell’amnesia. Ecco allora la seconda vita dei protagonisti. All’inizio portano barba incolta e giacche di velluto, poi indossano divise da ufficiali medici, frequentano reparti di terapia iperbarica, ambulatori del lavoro, cliniche d’avanguardia. Cattedre, primariati, premi internazionali, incarichi regionali: è il “riabilitamén modello” della società efficiente, pronta a perdonare purché tu sia utile, magari indispensabile, nell’emergenza successiva—sia essa amianto, coronavirus o natimortalità.

La distanza temporale lava l’imbarazzo: il detenuto di ieri diventa il luminare chiamato dall’OMS o dal governatore di turno. Sulla carta d’identità professionale non c’è segno di quell’acciaio impugnato in via Paladini. Eppure, basta grattare lo smalto per sentire ancora l’eco di uno slogan: “il nemico ideologico va estirpato”.

Rimozione e memoria selettiva. La nostra Repubblica—sempre prodiga di commissioni, anniversari e targhe—conosce bene l’arte di archiviare il non funzionale. Finché la destra resta minoranza, Ramelli è cronaca da commemorare fra pochi intimi. Quando però diventa forza di governo, la stessa vicenda si riempie di microfoni, cerimonie, polemiche su chi possa o non possa sedere in un comitato scientifico. La memoria non è neutra: si ridesta come un cane da guardia appena l’equilibrio politico oscilla. E così un professore che consiglia tamponi e tracciamenti si ritrova escluso perché, mezzo secolo addietro, vegliava sull’agguato a un ragazzino colpevole di pensare diversamente.

Pentimento tardivo: il prezzo del perdono. Nelle aule di giustizia degli anni Ottanta, alcuni imputati confezionano una lettera alla famiglia Ramelli. Chiedono “scusa”, offrono un risarcimento “modesto”. Le virgolette sono d’obbligo, perché il linguaggio appare calibrato da avvocati più che dai sussulti della coscienza. Il padre di Sergio respinge: non è questione di denaro, bensì di tempo. «Se lo avessi saputo prima—dice in un’intervista—mi avrebbe almeno aiutato a tirare avanti». Il perdono, per essere credibile, deve arrivare quando brucia ancora, non dopo che la vita ha restituito lauree, stipendi e citazioni su riviste internazionali.

Che cosa resta—e a chi conviene che non resti. Resta la fotografia di un ragazzo con lo sguardo mite e la camicia fuori moda, issata ogni primavera sulle spalle di coetanei che non erano ancora nati nel 1975. Resta la contraddizione di un Paese che chiede unità ma fatica a riconoscere il martirio dell’avversario politico. Resta, soprattutto, la constatazione che la vendetta, quando si veste di dottrina, diventa più pericolosa di qualsiasi banda improvvisata: è capace di sopravvivere ai protagonisti, di adattarsi, di risorgere con altri nomi.

Eppure, proprio dalla destra—dove la tentazione del vittimismo è forte—dovremmo evitare di impugnare quella stessa chiave, sia pure metaforica. Meglio domandarci come trasformare il ricordo di Ramelli in un argine contro ogni violenza politica, non in un’arma di propaganda. Perché se la giustizia ha tardato, la lezione resta limpidissima: quando l’ideologia autorizza il colpo di ferro, la civile convivenza muore prima della vittima.

Insomma, cinquant’anni dopo, la storia di Sergio Ramelli è uno specchio che il Paese preferirebbe non guardare: riflette responsabilità trasversali, amnesie consapevoli, carriere salvate da un silenzio collettivo. Eppure, proprio in quella rifrazione scomoda, si cela la possibilità di una pedagogia politica: riconoscere l’errore, inchinarsi alla verità dei fatti, rinunciare a ogni forma di giustificazione tribale. Se la chiave inglese fu lo strumento di un odio che si proclamava libertario, la memoria—quando è onesta—può diventare la chiave di volta per costruire una comunità finalmente capace di dire: la violenza non è mai “di parte”, è il volto stesso della barbarie.

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