“La polemica sulla gita-preghiera nella moschea di Ponte della Priula.”

“Quanti bambini musulmani avete mai visto la domenica mattina in una chiesa cattolica, magari in fila per ricevere l’Eucaristia? L’integrazione – ci dicono – è un ponte. Ma un ponte regge solo se gli archi stanno su entrambi i lati.”

Il fatto, nudo e (poco) crudo. Il 30 aprile, tre classi di una scuola dell’infanzia paritaria cattolica – dunque battezzata nel solco della tradizione cristiana – vengono condotte nella moschea di Susegana, Treviso. Le maestre si velano, l’imam illustra i cinque pilastri, i bimbi si inginocchiano rivolti alla Mecca. La foto finisce sui social: “Esperienza emozionante”, scrive la scuola. Emozionante sì, ma per chi? Le reazioni politiche piovono a raffica, da Salvini al ministro Valditara che manda gli ispettori. Il sospetto di «sottomissione ideologica» corre veloce; l’Ufficio scolastico regionale avvia accertamenti.

L’asimmetria culturale. C’è un nodo che grida più forte delle polemiche. Lo chiamerei “asimmetria di reciprocità”. Sì, perché i nostri bambini si inginocchiano nel luogo sacro altrui, ma quanti alunni musulmani sono invitati – senza veli d’ipocrisia – a sedersi nei banchi di una Messa e imparare il Credo? La risposta è un silenzio che pesa quanto una cattedrale vuota.

In nome del dialogo a senso unico ci si piega, letteralmente, al rito dell’altro. Però guai a rovesciare la scena: griderebbero alla «violazione di coscienza». E allora mi domando: dov’è la “cultura” degli insegnanti quando confondono conoscenza con partecipazione rituale? L’Islam – beninteso – merita di essere studiato; ma studiarlo non significa riprodurne i gesti sacri con un plotone di bambini di cinque anni.

Educare o indottrinare? La direttrice spiega che tutto era concordato con le famiglie e finalizzato al “rispetto delle diversità”. Ottimo proposito; peccato che la pedagogia non si limiti alle intenzioni. Il corpo è forma in cui si scrive l’apprendimento: inginocchiarsi non è un atto neutro, è un linguaggio che dice obbedienza, appartenenza, devozione. La scuola, luogo di libertà critica, li ha trasformati in comparse di un rito che non appartiene loro. Tutto questo per “fare esperienza”. Ma l’esperienza, se non mediata da senso, diventa spettacolo di se stessa.

Un diritto dimenticato: quello a dire “no”. Si parla tanto di diritti dei minori, ma chi ha difeso il diritto di quei bambini a non piegare la fronte se non lo sentivano? Nella frenesia di «abbracciare la diversità» si è perso il diritto elementare alla non-adesione. E qui emerge la responsabilità degli adulti: maestre, genitori, istituzioni. Una comunità educante dovrebbe insegnare prima di tutto a custodire la propria postura, fisica e simbolica.

Oltre lo sdegno. Facile indignarsi, più difficile proporre. La proposta è semplice quanto esigente: reciprocità. Ogni visita interreligiosa dovrebbe essere a porte girevoli: un giorno in moschea, l’altro in chiesa, poi in sinagoga, magari in un tempio sikh. E sempre con la stessa regola aurea: si osserva, si domanda, si impara; non si partecipa a riti che implicano una professione di fede.

Chi pensa che questa cautela sia “muro identitario” rifletta: nei Paesi a maggioranza islamica, il pluralismo religioso spesso non ha cittadinanza. La nostra magnanimità non può essere ingenuità suicida.

Post-scriptum (amaro). Da filosofo prestato al giornalismo (o viceversa) non posso che chiudere con una metafora: se un albero rinnega le radici per abbracciare tutte le piante del bosco, finirà per seccare nella prima stagione di siccità. L’integrazione autentica non è abbattere se stessi, ma tendere rami robusti. E i rami senza tronco non stanno in piedi.

E allora, cara scuola cattolica che scambia la carità per autodemolizione culturale, ascolta il grido sommesso di molti genitori: educa alla conoscenza, non alla genuflessione. Altrimenti il ponte crolla – e sotto non c’è acqua, ma il nostro futuro.

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