
C’è un’immagine che ritorna, ostinata, nella politica provinciale trentina: la mozione di sfiducia come spada di Damocle, sospesa ma mai calata. È lì, “sotto la lampada di un ristorante stellato”, pronta a essere servita. Da un lato, la vicepresidente Francesca Gerosa, custode di un fragile equilibrio; dall’altro, il consigliere Claudio Cia, che – a giudicare dai toni – sembra coltivare un astio puntiglioso che attraversa l’intera legislatura.
Il paradosso della coesione proclamata. Nella retorica ufficiale, la coalizione è comunità coesa; nella pratica quotidiana, invece, è un organismo perennemente a rischio di rigetto. Le accuse rivolte a Gerosa – “mancanza di coesione”, “dissonanza con Fugatti”, “confusione all’esterno” – potrebbero essere rivolte, con minime sostituzioni di nomi, a ogni giunta degli ultimi vent’anni. Il nodo non è la persona, ma la fisiologia del potere condiviso: quando si moltiplicano i centri di gravità, la discordia è non un incidente ma un bisogno funzionale, il sale che rende sapida la narrazione politica.
Ecco allora il rovescio comico della vicenda: per guarire la presunta instabilità si minaccia un atto che, di per sé, la porterebbe all’apice. Chi invoca ordine brandendo la clava della sfiducia rischia di confondere casa comune con vaso di coccio.
Il tempo tattico e la ferita dell’ego. “Non miro ad alcun assessorato”, dichiara Cia con studiata modestia. Sarà. Ma nella polis – lo ricorda Platone e lo ribadisce Machiavelli – l’ambizione si cela spesso dietro la maschera del servizio. La mozione, intanto, rimane nel cassetto fin dopo il 4 maggio, quasi a indicare che la moral suasion non è etica pura ma calcolo di convenienza: se il vento comunale soffierà favorevole, la sfiducia potrà essere issata a vela; altrimenti, resterà coperta, come barca in porto in attesa di tempi migliori.
C’è poi la psicologia dell’“escluso”, di chi fu costretto a lasciare la Giunta “su pressione di Fratelli d’Italia” e ora intravede l’occasione di pareggiare i conti. Il potere, quando respinge, lascia ferite profonde – e la politica locale, con i suoi spazi ristretti, amplifica a dismisura risentimenti che nei parlamenti nazionali finiscono in dissolvenza.
Tra Fugatti e Meloni: un equilibrio di fili sottili. Sul fondo, la partita ha un respiro che valica i confini del Trentino: Lega e Fratelli d’Italia danzano su un crinale nazionale dove Giorgia Meloni non può permettersi di perdere roccaforti e Maurizio Fugatti non può apparire succube. In questa tensione, la sfiducia a Gerosa diventa pedina di scambio, minaccia più che proiettile, avviso più che condanna.
Si conversava amabilmente, notano le cronache, tra Fugatti, Daldoss e Girardi: l’allegria del terzo mandato promesso. Ma se FdI “lecca le ferite” confidando nella copertura romana, la Lega deve misurare quanta frattura può sostenere senza incrinare l’immagine di guida salda del territorio.
Una domanda ultima. Alla fine, la vicenda solleva un interrogativo che travalica i protagonisti: la sfiducia è ancora strumento di responsabilità o si riduce a leva di posizionamento? Se tutto diventa tattica, se ogni gesto serve unicamente a ricalibrare i pesi interni, il rischio è di logorare ciò che in democrazia dovrebbe essere fondamento: la fiducia che i cittadini ripongono nella parola istituzione.
Viceversa, se l’atto si muove sul terreno del merito – coerenza di linea, effettiva resa amministrativa – allora ben venga il coraggio di esporsi. Ma in quel caso occorre coerenza: chi chiede testa altrui deve accettare di mettere in conto la propria. Forse il vero rischio non è perdere il carretto giusto, ma scoprire che quel viaggio non porta da nessuna parte: la sfiducia, se pronunciata per calcolo, resta carta che il tempo sgualcisce.
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