
“Il processo dell’opinione pubblica ha già emesso il verdetto. Eppure, nei tribunali, la verità deve essere ancora scritta. Davide Barzan è un uomo in bilico: tra condanne e assoluzioni, tra le luci taglienti di uno studio televisivo e l’ombra lenta dei codici.”
È solo un “consulente” “criminalista”? O un abile millantatore? Davide Barzan, balzato alla ribalta grazie al caso Paganelli come esperto criminalista, dispensa consigli, orchestrando confronti pubblici, firmando strategie. Ma il suo nome, oggi, campeggia al centro di una narrazione ben più feroce: quella firmata Le Iene, andata in onda con due puntate che hanno stracciato ogni record di ascolti, trasformando un presunto truffatore in simbolo del corto circuito tra giustizia e spettacolo.
La parabola mediatica del “criminalista”. Ok, i numeri parlano chiaro: quasi due milioni incollati alla prima de Le Iene, share al 12,7 %, hashtag #DavideBarzan che schizza fra le tendenze. Il format? Un martello pneumatico: tagli rapidi, nomi sparati, facce pixelate, voci off. Niente retorica, solo montaggio chirurgico.
Così Barzan diventa l’“avvocato fantasma”: millanta, intreccia truffe, promette Eldorado a Dubai—anzi, a chiunque capiti a tiro—e tradisce pure gli amici, stando ai racconti. Ma più delle accuse colpisce l’effetto domino: ogni testimonianza soffia sul fuoco del sospetto, ogni documento non mostrato piazza una condanna silenziosa. Dentro questo teatro il diritto scivola a nota a piè di pagina. Barzan, investito dai riflettori, prova a ribattere: «Oh, non mi sono mai spacciato per avvocato», scaricando tutto sul suo social media manager. Però, diciamocelo, in TV le smentite contano poco: pesa ciò che la gente ha già deciso di credere — e soprattutto ciò che le telecamere hanno scelto di mettere in scena.
La giustizia tra due sentenze (e una miriade di post sui social). Facciamo due conti, nel 2013 lui incassa una condanna per truffa — assegno scoperto, sei mesi sospesi, fine. Salto in avanti al 2023: assoluzione piena, “il fatto non sussiste”. Due verdetti che si guardano storto nello stesso faldone, ma i dettagli restano sigillati in qualche archivio. E intanto, là fuori, il tribunale dei social media scolpisce la propria sentenza a colpi di meme e indignazione lampo.
E quei quarantamila euro spediti — dicono — verso Dubai? La caparra per un locale che, non è mai comparso su un registro? Mail, contratti, firme? A dirla tutta, maneggiamo solo briciole d’informazione. Però basta un servizio montato a regola d’arte —taglio secco, la classica musica di suspense — ed ecco la sentenza lampo, con il pubblico sul divano che applaude manco fosse la finale di un talent.
La tv d’inchiesta come bisturi (ma anche come accendino). C’è chi difende Le Iene: senza il loro lavoro, molte verità resterebbero sepolte. Ma c’è anche chi parla di “giustizia spettacolo”, dove la suggestione vale più della prova e l’effetto virale più della querela. La verità processuale ha i suoi tempi; la televisione, i suoi tagli di montaggio.
Barzan non è solo al centro di una denuncia: è al centro di una tensione culturale. Il pubblico pretende giustizia veloce, emotiva, a portata di click. Ma il diritto ha bisogno di prove, tempi, contraddittorio. Quando questi due universi si scontrano, qualcosa si spezza.
L’eco digitale e il silenzio dei tribunali. Il giorno dopo la messa in onda, il nome di Barzan invade X e Facebook. C’è chi lo sbeffeggia con toghe di cartone, chi lo difende: “Questa è una gogna”. Ma nessuna piattaforma è in grado di quantificare quanta indignazione sia autentica e quanta sia un effetto a catena. La tv fornisce il frame, i social media la cassa di risonanza. In mezzo, c’è la persona. E qui sta il punto. Un individuo può essere colpevole, innocente, ambiguo, fragile, scorretto… Ma la sua dignità dovrebbe restare intatta fino a sentenza definitiva. E invece Barzan è già diventato una maschera: quella del “cattivo della settimana”. Uno spazio stretto, tra hashtag e citazioni legali.
In questa vicenda c’è tutto: l’ego, la caduta, la tv che giudica e il tribunale che rincorre. E c’è uno spazio—minuscolo, ma decisivo — dove dovremmo avere il coraggio di sospendere il giudizio. Proviamo a guardarci allo specchio e chiederci sul serio: cosa resta, alla fine, dei fatti nudi e crudi?
Non è questione di metter su la toga per difendere Barzan — tutt’altro. Si tratta di non far sì che l’hashtag del giorno prenda il posto della legge. Perché i microfoni illuminano le ombre, d’accordo, ma se li avvicini troppo rischiano di incenerire ciò che è ancora tutto da dimostrare.
Ecco dove si gioca la democrazia: dentro un varco sottile, quasi invisibile, fra il picco di share e le righe del Codice penale. È lì che dobbiamo tornare a guardare, se non vogliamo che la giustizia diventi una fiction di prima serata.
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