Perché continuiamo a credere che l’universo prenda appunti sui nostri desideri? 

Sfrecciano le vespe in Via San Vitale—profumo di benzina, un colpo di luce sul selciato bagnato. Dentro al bar “Aurora”, un espresso che brucia le dita e la domanda di sempre: “Se lo immagino, accadrà davvero?”. Qui comincia – non dallo scaffale di libri patinati – la lunga storia della cosiddetta immaginazione performativa.

Paradosso numero uno: viviamo nell’età degli algoritmi, eppure ci affidiamo a formule che somigliano a incantesimi medievali. Chiara, la copywriter che in pausa pranzo visualizza soldi a occhi chiusi; Ahmed, che giura di avere guarito la propria timidezza ripetendo mantra di abbondanza; io stesso, confesso, ho ceduto al rito: biglietto dell’aereo stretto in tasca, “vedrai, basterà desiderarlo”. Funziona? Dipende dalla misura in cui il desiderio diventa progetto.

Pensa positivo”, dicono i manuali. Suona innocuo. Eppure stride—come un violino scordato in una stanza vuota—quando diventa dogma. Perché se tutto si manifesta a colpi di volontà, allora la malattia di un amico è colpa dei suoi pensieri cupi, la precarietà del vicino frutto delle sue paure. Qui lo scarto etico si fa vertigine: la responsabilità individuale scivola nel senso di colpa cosmico.

C’è poi la questione delle immagini. Non quelle metafisiche, ma quelle concrete. Nel 1714, Leibniz scriveva che la mente è “specchio vivente dell’universo”. Oggi quel riflesso si è trasformato in storyboard su Instagram, ahimè: vision board colorate, glitter e post-it. Il rischio? Che l’immaginario divenga cartellone pubblicitario di noi stessi, e la vita una campagna di personal branding—ops, dicevo… di “realizzazione personale”.

Un venerdì d’inverno ho incontrato Elsa Morante (sì, in sogno, succede). Mi apostrofa così: “Ragazzo, se la speranza non valica la miseria quotidiana resta slogan”. Mi sveglio col dubbio addosso. Forse la legge dell’attrazione funziona solo se si sporca le mani con il fango della storia: salari bassi, conflitti, disuguaglianze. Non basta visualizzare: serve ciò che i sociologi chiamano “capitale sociale” e che qui, più semplicemente, potremmo nominare etica della speranza—quella che diventa cooperazione, battito collettivo.

Eppure qualcosa di vero, di tattile, c’è. Provate a pensare a quella volta in cui un’idea vi ha spinto fuori strada—letteralmente: deviazione, stradina di campagna, poi un cartello “Sagra del tortellino”. Entrate e, sotto un tendone che sa di sugo e legna, incontrate la persona che cambierà la vostra vita. Coincidenza o attrazione mentale? Forse entrambe. L’essenziale è ricordare che il cervello stesso filtra la realtà: se cerchi fiorellini gialli li scovi ovunque, se cerchi opportunità pure. La neurobiologia lo chiama “sistema reticolare attivante”. Noi, più modestamente, destino.

Ora: dobbiamo gettare tutto nel calderone dei ciarlatani? Direi proprio di no. Occorre un antidoto: un dubbio, un’ironia, uno spirito critico. Perché la speranza ronza come un vecchio neon—scalda ma può accecare. La legge dell’attrazione, in fondo, è figlia di una cultura che vorrebbe cancellare il caso; rifiuta l’ombra, pretende controllo totale. E in questo appare terribilmente moderna, quasi tecnocratica, pur travestita da spiritualità pop.

Immaginate—una sera di vento tiepido sul terrazzo—che le vostre aspettative siano lanterne di carta. Alcune volano alte, altre si strappano subito. Ciò che conta non è la certezza che ognuna raggiunga la luna, ma la cura con cui si annoda il filo, il respiro dato alla fiamma, la mano che regge la corda degli altri. La bellezza sta nella trama di luci – non nel conteggio di quelle spente.

E adesso? Forse la lezione è semplicissima, ma non la pronunciano quasi mai nei webinar motivazionali: il desiderio smuove, sì, però senza argini rischia di travolgere. Meglio trasformarlo in rotta, bussola impastata di limiti, imprevisti, piccole gioie sensoriali: l’odore di carta nuova su cui planano appunti, il ronzio di un tram che conduce a un colloquio, la stretta di mano—un po’ sudata—prima di un nuovo inizio.

Chiudo (o lascio socchiuso?) con una provocazione: e se all’universo non fregasse niente dei nostri sogni, ma fosse comunque felice di osservarci mentre li rincorriamo—cadendo, rialzandoci, ridendo della nostra stessa ingenuità?

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