Maison Rostang, Parigi: un rito antico che pulsa ancora – e ti sfida a guardarlo negli occhi.

Un lunedì sera piovigginoso, rue Rennequin odora di pietra bagnata e tabacchi spenti. Bussola del flâneur affamato, la porta vetrata di Maison Rostang – due stelle Michelin cui il tempo ha lucidato i bordi – attira come un’insegna di cinema d’essai. Dentro, un lampo d’argento: il pressoir d’argent scintilla accanto ai velluti color prugna, pronto a entrare in scena.  

Lo chiamano Canard au Sang e appartiene alla piccola élite dei piatti-spettacolo – roba da far arrossire un flambé. Il cerimoniale inizia con l’ostensione dell’anatra intera, appena rosolata, pelle che fruscia come carta di riso. Un coltello d’acciaio molto affilato separa cosce e magrets; il profumo, leggermente selvatico, mi riporta a un pranzo in Normandia (parecchi anni fa), quando un mio caro amico – cacciatore testardo – lasciò in cucina la porta aperta e la bruma di marea entrò a dare man forte al fumo di legna.

Il copione, però, nasconde un colpo di teatro: la carcassa spogliata finisce nel coffre d’argento, poi nella pressa. Una vite mansueta all’inizio, poi più dura, schiaccia ossa e fibre; un filo rubino cola nel pentolino, mescolandosi a porto, cognac e un battito di burro. È quel sangue vivo – viscoso, appena ferroso – a colorare la salsa di una densità che “inchiostra” il cucchiaio, ricorda il ruggito di una tromba jazz, stona, e insieme incanta

Perché spremere un’anatra? La risposta sta sulle rive della Senna: verso fine Ottocento, a Rouen, un oste di Duclair (Père Denise) escogitò il metodo per non sprecare neppure un’emozione del volatile. Più tardi la Tour d’Argent fece del canard à la presse il suo numero da circo gastronomico, numerando ogni anatra servita come si fa coi francobolli rari. Oggi, dice Wikipedia, pochi ristoranti mantengono la tradizione; a Parigi sopravvivono in due o tre, e Rostang è tra questi, testimone caparbio di un “gusto di sangue” che il politically correct vorrebbe rimuovere dal palato.

Maison Rostang

Al timone, lo chef Nicolas Beaumann gioca di cesello. L’ho visto chinare il capo, quasi in preghiera, mentre filtra il succo scarlatto: gesti lenti, coltellino affilato a specchiargli le rughe d’espressione. Racconta di avere imparato il rito dal patriarca Michel Rostang e di averlo “ripulito” con tocchi contemporanei – un’insalatina di puntarelle appena amare, una spolverata di cacao amaro che stride e funziona. La sala osserva in silenzio, solo il tintinnio dei bicchieri interrompe la tensione. 

Arriva il piatto: la carne è rosata, i bordi virano al granato, la salsa versata a filo è come un inchiostro calligrafico. Assaggio. La lingua riconosce prima il velluto, poi un’eco metallica – il gusto “giboyeux” che i manuali definiscono selvatico, io direi “ottobrino”, come la ruggine sui cancelli dei giardini pubblici. Il vino – Bourgogne rouge di piccola annata – rilancia note di sottobosco, si aggancia al ferro della salsa e lo trascina verso una chiusura di lampone maturo.

Fuori, la pioggia adesso è finita. Penso alla sproporzione fra la semplicità di un’anatra domestica e l’ingegneria di quel torchio d’argento; fra la violenza del gesto – spremere ossa – e la carezza vellutata che ne esce. A questo punto è d’obbligo una domanda fondamentale: nei decenni a venire, chi avrà il coraggio di tenere in vita rituali così fisici, così dichiaratamente sanguigni? O lasceremo che la cucina diventi un museo interattivo dove il sangue è pixel e il profumo arriva via Bluetooth?

Il cameriere mi consegna il conto, annota con orgoglio il numero della mia anatra – come fosse il chassis di un’auto d’epoca – e sorride: “Revenez quand vous voulez”. Tornerò, penso, magari una sera di marzo quando Parigi profuma di pollini e gasolio leggero… Ma chissà se, allora, il Canard au Sang premerà ancora le sue ombre rosse sul piatto – o se resterà un ricordo, come il ronzio di un vecchio neon che illumina l’ultima edicola di quartiere.

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