Cronaca di un’Italia che stacca la spina.

Il suo orologio è il gallo che canta all’alba. ‘Giuseppe’ – chiamerò così l’uomo che mi offre un caffè preparato sul fornello a gas del suo camper del 1990 – non ha più badge, né password da cambiare ogni tre mesi. Una mattina ha chiuso la porta del suo ufficio, contratto a tempo indeterminato in tasca, e ha deciso che quel tempo, in realtà, lo stava determinando lui. Ha venduto casa, lasciato la vecchia casa da svariati metri quadrati («uno spreco di cemento e mutuo»), comprato questa radura nella Bassa e si è costruito un micro-regno: una casetta di legno, due ettari di orto, diverse galline, capre e un cane che non smette mai di sorridere.

Giuseppe non è un’anomalia. Secondo stime informali di associazioni come WWOOF e Rete Italiana Villaggi Ecologici, oltre quattromila nuclei familiari si sono spostati in zone rurali negli ultimi tre anni, tagliando le utenze, riducendo la connessione a un vecchio telefono che funziona solo in caso d’emergenza. Sono numeri piccoli se confrontati con l’esodo urbano di fine Ottocento, ma enormi per un Paese che si racconta ancora attraverso fibre ottiche e consegne in 24 ore.

Il salto dal finestrino dell’open space. Quando gli chiedo il perché, Giuseppe alza le spalle: «Non contare su nessuno. Ho seguito un istinto primordiale, quello che la città anestetizza con badge e bollette». Il suo racconto è una radiografia di molte vite compresse: riunioni interminabili, scadenze che divorano i weekend, l’illusione che la smart‑life renda liberi mentre ci costringe a rispondere alle mail alle 22.37. A un certo punto, dice, «ho capito che serviva solo un tetto per la pioggia e un riparo per la notte. Il resto è libertà».

Dal Wi‑Fi al fil di ferro. La giornata di Giuseppe gira come un orologio solare: all’alba dà da mangiare agli animali; a metà mattina trapianta pomodori; nel pomeriggio ripara la recinzione con un pezzo di fil di ferro. A sera, si siede sulla soglia del camper con un bicchiere di vino autoprodotto. «Sono felice, felice e ancora felice» ripete, quasi a voler decuplicare una parola che in città si pronuncia sottovoce per scaramanzia.

Questa scelta non è fuga bucolica da cartolina: è lavoro, calli alle mani, errori agricoli pagati con la fame di novembre quando l’orto langue. Chi parte lo sa. Ma – e qui sta il punto – accetta di rischiare sulla propria pelle invece che sulla volatilità di un mercato azionario che non controlla.

La società dell’iper‑connessione si scricchiola da sola. Per ogni Giuseppe, ci sono dieci colleghi rimasti davanti allo schermo che lo chiamano pazzo. Eppure lo invidiano. L’indice ISTAT sul benessere percepito segnala da anni una forbice: cresce il PIL, cala la serenità. La pandemia ha fatto da detonatore; il caro‑mutui e la precarietà energetica hanno finito l’opera. E allora ecco spuntare micro‑comunità autogestite sull’Appennino, cascine occupate legalmente con progetti di cohousing, vecchie roulotte trasformate in cucine da campo.

Gli economisti storcono il naso: «Non è produttivo». Vero, ammesso che il metro sia ancora la produttività. Ma se l’unità di misura diventa la pace di un tramonto senza notifiche, il conto cambia. «Dormi qui – mi dice Giuseppe indicando il suo letto stretto – e ti svegli col silenzio addosso. È un lusso che in città costa più dell’affitto».

Non un ritorno al passato, ma un assaggio di futuro. Sarebbe superficiale bollare il fenomeno come l’ennesima moda eco‑hipster. Qui c’è qualcosa di più profondo: è la ricerca di un equilibrio nuovo tra individuo e ambiente, un patto in cui la tecnologia, se serve, è strumento e non protesi identitaria. Chi vive off‑grid non nega il progresso; ne misura l’impatto: pannelli solari sì, scroll infiniti no. Non è neppure campagna contro città: è civiltà contro velocità.

Se state leggendo queste righe sul display di un telefono che lampeggia per l’ennesima notifica, chiedetevi: quanto spazio vi serve davvero per essere vivi? Un tetto per la pioggia, un letto per la notte, forse un orto. Tutto il resto è una sovrastruttura eretta da chi vi vuole connessi, consumanti, stanchi. Spegnere la presa non è diserzione: è resistenza.

Provateci. Almeno per un fine settimana. Scommetto che il gallo, all’alba, vi sembrerà il più puntuale dei direttori d’orchestra.

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