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Ricordate quel febbraio del 2003? L’allora segretario di Stato Colin Powell agitava una minuscola fiala bianca davanti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, promettendoci laboratori ambulanti di antrace a Bagdad. Era lo spettacolo della paura in provetta; applausi diplomatici, titoloni, e poi – sorpresa – zero armi biologiche. Oggi, ventidue anni dopo, Hollywood ci ripropone il sequel: cambiano gli attori (Iran al posto dell’Iraq) ma il copione resta identico.

Da una settimana Teheran e Tel Aviv si scambiano droni, missili e improperi come fossero figurine dei calciatori. Le mappe del Washington Post lampeggiano in tempo reale: reattori colpiti a Isfahan, depositi di carburante incendiati a Tel Aviv, un ping‑pong pirotecnico che somiglia più a un videogioco che a una guerra vera, se non fosse per i corpi veri sul selciato.

In mezzo al fumo entra in scena Washington. Il presidente Trump – sì, ancora lui – confessa di star «valutando» se spalleggiare Israele con i suoi GBU‑57, le bunker‑buster da 15 tonnellate pensate per sventrare montagne e coscienze. La Casa Bianca sposta portaerei, tanker e bombardieri; gli strateghi lucidano powerpoint e moralità, pronti a «neutralizzare» un programma nucleare di cui, dettaglio non trascurabile, non c’è prova di militarizzazione imminente.

Intanto un dato resta tabù: Israele, unico Stato mediorientale dotato dell’atomica (ufficiosamente, s’intende), non ha mai firmato il Trattato di Non Proliferazione. Chi custodisce i custodi? Qual è la logica per cui Tel Aviv può tenere testate in cantina mentre Teheran deve accontentarsi dell’uranio 235 al 60 % per uso «medico»? Il doppio standard nucleare è la crepa che attraversa ogni conferenza stampa, ma nessuno osa infilarci il microfono.

Sul terreno, i civili pagano la bolletta di questo cortocircuito geopolitico. Amnesty International denuncia «un’escalation senza precedenti» e sollecita corridoi umanitari che restano lettere morte mentre i razzi decollano. Bambini iraniani estratti dalle macerie, anziani israeliani trascinati nei rifugi: le vittime contano poco finché non possono votare.

Gli analisti parlano di proxy bruciati (Hamas, Hezbollah) e di un Iran «isolato». Ma isolato da chi? Da un Occidente che commercia con Riyadh a colpi di petro‑dollari e vende F‑35 agli Emirati? Ipocrisia à la carte: chi è nostro cliente è un partner strategico, chi non lo è diventa «minaccia esistenziale».

Poi c’è l’intelligence a orologeria: rapporti «confidenziali» filtrati a reti unificate, foto satellitari sgranate, voci di centrifughe tornate in vita dopo la siesta diurna. A ogni leak, i mercati tremano e i titoli difensivi salgono. La miscela perfetta di paura e profitto, già testata in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria. Funziona sempre, finché l’ultima bandiera a stelle e strisce resta piantata in un deserto qualunque.

Ora mi chiedo: possibile che l’America – quella di My Lai, di Pentagon Papers, di Neil Sheehan e Daniel Ellsberg – abbia dimenticato la lezione? Una democrazia che bombarda per prevenire (senza prove granitiche) è una contraddizione ambulante. Soprattutto se proclama di difendere valori universalisti mentre ignora la Corte Penale Internazionale e colleziona eccezioni come francobolli.

E arriviamo all’elefante nella stanza: uccidere per non far proliferare. È l’equivalente strategico di bruciare la biblioteca per impedire agli avversari di fotocopiare i libri. Nel 2025, con l’Iran intrappolato da sanzioni record, la guerra preventiva rischia di essere una profezia che si autodistrugge: più lo strangoli, più Teheran avrà l’incentivo – anche solo psicologico – a inseguire l’arma definitiva.

Allora, eccoci al bivio. Possiamo ripetere la pantomima delle fialette scuotendoci la coscienza sui talk‑show, o riconoscere che la sicurezza non si esporta a colpi di bunker‑buster. Tocca scegliere tra la tentazione dell’applauso bellico e la fatica del negoziato.

Appello finale – provateci a smentirmi: infiliamo quella finta provetta in un museo delle menzogne, spegniamo i joystick dei raid teleguidati e sediamoci (tutti, sì, anche gli intransigenti) a un tavolo dove l’unica arma ammessa sia un microfono aperto. Perché se l’Occidente insiste a salvare il Medio Oriente distruggendolo, presto non resterà più nulla da salvare – e nemmeno un alibi da esibire all’ONU.

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