Ci sono momenti in cui la grande tavola diventa un luogo di rivelazione: il vapore che sale da un consommé di Guy Savoy, la profondità iodato-salina di una salsa firmata Arnaud Donckele, il lampo agrumato che Anne-Sophie Pic lascia balenare in un dessert trasparente. Non è (solo) retorica da guida: è la somma di gesti minimi e millimetrici che, anno dopo anno, tengono la Francia in vetta al panorama mondiale. Secondo l’ultimo rapporto de La Liste – quel “classifica-delle-classifiche” che normalizza oltre 1100 fonti e attribuisce un voto in centesimi – la bandiera tricolore francese resta la più sventolata tra i Top 1000: 111 insegne, dalle Alpi alla Costa Azzurra, consacrano l’Esagono come patria insuperata dell’alta cucina L’Hôtellerie Restauration.

Tradizione che corre avanti. Per capire perché, basta osservare l’evoluzione dei suoi protagonisti. Alain Ducasse (mio mentore), padrino di un impero che oggi dialoga con lo spazio e con le startups del cacao; Yannick Alléno, funambolo di riduzioni che sembrano concerti da camera; la “nouvelle vague” femminile guidata da Stéphanie Le Quellec e Pic, capace di elevare il vegetale a status poetico; la costanza filologica di César Troisgros e l’ironia gourmand del grande Jean-François Piège. Tutti, in modi diversi, mescolano codici secolari (salse madri, découpe in sala, formaggera d’argento) e ossessioni contemporanee – fermentazioni, agricoltura rigenerativa, design multisensoriale.

Il risultato non è un museo, ma un laboratorio permanente in cui la tradizione, lungi dall’essere protetta sottovetro, viene smontata e rimontata con la curiosità di un ragazzino che apre e richiude un orologio.

Il vertice simbolico. Emblema di questa tensione è la diarchia Savoy-Donckele: il maestro parigino conserva la prima posizione mondiale per l’ottavo anno di fila, mentre il “Corsaro” di Saint-Tropez lo affianca con La Vague d’Or, riprova che si può parlare provenzale al massimo livello senza tradire la grammatica classica sortiraparis.com. E, dettaglio tutt’altro che secondario, sette cucine straniere condividono la vetta: il confronto è serrato, ma Parigi e la Riviera restano fari accesi.

Uno sguardo oltre le Alpi. L’Italia segue da vicino – quasi un centinaio di ristoranti in graduatoria – sospinta dalla lirica di Norbert Niederkofler in Alto Adige e dalla “bottega totale” dei Fratelli Cerea in Lombardia. Eppure, chi scrive avverte un diverso battito cardiaco quando attraversa la soglia di un bistrot parigino qualsiasi: sarà la crosta del pane che cede al tatto, sarà quel guizzo di burro nocciola che inchioda il tempo. Diciamolo chiaramente: la Francia ha ancora quel dono raro — trasformare ogni pasto in un rito civile, con la tecnica che serve il commensale invece di mettersi in mostra a fare puro virtuosismo.

Perché (ancora) Francia. La Liste funziona da termometro globale, ma è nella quotidianità che si misura la leadership: scuole alberghiere che formano brigate (come si deve) in cinque anni, filiere brevissime che legano casaro e chef, investimenti statali sulla visibilità culturale della gastronomia. Mentre nuove piazze – Corea, Perù, Emirati – bussano alla porta del fine-dining, la cucina francese si difende rilanciando, come un jazzista che varia il tema all’infinito senza perdere il tempo.

Se c’è una morale, è semplice: la grande cucina non è una somma di stelle né un algoritmo, ma quell’istante in cui ti scopri felice di aver preso un treno solo per assaggiare un brodo. Insomma, la Francia continua a offrire mille buone ragioni per chiudere la valigia al volo — e credetemi, basta un sorso di Bordeaux vellutato perché, giusto il tempo di un brindisi, quella grande nation ti sembri già casa.

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