
” Trento, aprile inoltrato. Nel salone liberty del Grand Hotel Trento, i sei aspiranti sindaco si sono guardati negli occhi e – per una volta – hanno lasciato cadere lo zucchero filato delle promesse per toccare la questione che fa tremare i polsi a ogni amministratore: la sicurezza.
Sulle rive dell’Adige, fra risse in piazza Dante, “spaccate” in serie e un dormitorio che chiude mentre le temperature vanno sottozero, la città scopre di non essere più l’isola felice fotografata dai depliant turistici: le curve dei reati ricominciano a salire, i furti in appartamento sono più che raddoppiati rispetto al 2021, sostenuti da un +114% su base triennale.
E no, il disagio non si esprime più solo nelle statistiche: lo si vede nei vetri infranti all’alba, nell’abbaiare ansioso dei gruppi WhatsApp di quartiere, nell’odore di psicofarmaci che impregna il carcere di Spini, dove i detenuti psichiatrici ormai superano il 20% dei presenti. “
Il bivio filosofico. Che cosa significa “sicurezza” in una città di 120 000 abitanti stretta fra montagne, corridoi europei e modelli di accoglienza sgretolati? Se la si riduce a guerra di cifre, si perde l’anima del problema. “La polis non è un recinto, è un organismo che assorbe conflitti e li elabora in forme di convivenza”. Ma perché l’inquietudine non si trasformi in puro rancore, occorrono due ingredienti che qui latitano: coerenza istituzionale e prossimità sociale. Senza la prima il cittadino non distingue l’errore dal capro espiatorio; senza la seconda diventa facile scambiare il rumore del mondo con l’arrivo dei barbari.
Ecco allora che il dibattito dell’altro ieri, pur nei toni aspri, merita un ascolto attento: ciascun candidato offre una lente diversa, e la somma di quelle lenti racconta molto di noi – dei timori, delle ferite, ma anche delle potenzialità ancora intatte.
Sei cornici, un unico specchio. Ianeselli: la “sicurezza complessa”. Il sindaco uscente difende il modello di polizia urbana – pattuglie di quartiere, contatto diretto con le circoscrizioni – e chiede rinforzi dallo Stato. La sua tesi: Trento paga la scelta provinciale di concentrare i migranti nel capoluogo senza servizi di integrazione. Il rischio? Una bomba sociale innescata non dal crimine, ma dall’abbandono. Non a caso, l’unico dormitorio per richiedenti asilo è nato solo a fine 2022 e copre appena due dozzine di posti. Politica dei piccoli numeri, certo; ma chi vive in strada diventa facile preda dello spaccio minuto e delle liti notturne.
Goio: il “pugno di ferro” dolomitico. La candidata del centrodestra rivendica il diritto–dovere del sindaco a occuparsi di ordine pubblico. Propone di potenziare subito l’organico della polizia locale, moltiplicare le telecamere e applicare il Daspo urbano senza timidezze. In parallelo, tifa per il Centro di rimpatrio promesso dalla Provincia. La linea è chiara: separare chi “vuole vivere nella legalità” da chi non lo fa. È la forza seduttiva del verbo “garantire”, ma rischia di restare monco se non si traduce in prevenzione sociale. Le città non sono caserme: vietato confondere la sorveglianza con la cura.
Geat: il “realismo amministrativo”. L’imprenditore civico ricorda che l’organico della polizia locale non è cresciuto in dieci anni. Troppo poco per un centro che richiama ogni giorno pendolari, turisti e studenti. Non crede nel Daspo – “grida manzoniane”, dice – e chiede piuttosto un piano di assunzioni, tecnologie di pattugliamento più agili, un maggiore coordinamento con Carabinieri e Polizia di Stato. Qui la sicurezza coincide con la manutenzione della macchina pubblica: senza motore, anche il volante meglio regolato non serve.
Demarchi: l’“assessorato della soglia”. Il candidato di area autonomista invoca un assessorato alla sicurezza che dialoghi costantemente con Prefettura e Questura. Non demonizza l’auto, non demonizza l’accoglienza: chiede libertà di scelta (mezzo privato o bus) e responsabilità condivisa (chi arriva rispetti leggi e tradizioni). L’idea interessante è la regia unica: oggi il tema sicurezza galleggia fra deleghe diverse, spesso in conflitto. Ma una cabina di regia ha senso solo se dotata di budget e poteri di intervento – altrimenti è un call center di lamentele.
Bortolotti: la “critica dell’ideologia securitaria”. La candidata eco–progressista rovescia il tavolo: il disagio non nasce dai migranti, ma dalla disuguaglianza strutturale che li getta in strada. Chi vuole tagliare i corsi di lingua, dice, semina insicurezza. Cita l’inchiesta ‘Perfido’ per dimostrare che la criminalità organizzata non si combatte con posti letto in più, ma con inchieste profonde su appalti e logistica. È la lezione della sinistra ambientalista: bonificare i terreni (ex Sloi) è parte della stessa agenda che riduce i conflitti in piazza. Visione coerente, ma il cittadino che vive lo scippo sul tram chiede anche risposte qui e ora.
Gabrielli: la “sicurezza diffusa e certa”. La candidata della sinistra radicale vuole redistribuire i richiedenti asilo su tutta la provincia (“più piccola è la comunità, meglio si integra”) e assicura “pena certa per chi delinque, accoglienza certa per chi lavora”. Sembra la quadratura del cerchio: rigore penale e rigore morale. Ma l’incrocio di due certezze non genera di per sé serenità: serve il cemento del dialogo intercomunale, altrimenti “accoglienza diffusa” diventa “rifiuto diffuso”.
Zoom su tre nodi strutturali.
Carcere di Spini: la cartina di tornasole. Sovraffollato, sotto-organico, con 83 detenuti psichiatrici su 380 presenti. Qui la fragilità diventa violenza – e il territorio paga il rimbalzo di quella violenza quando il detenuto esce senza adeguato supporto.
Polizia locale e risorse. Gli agenti sono circa 170, numeri simili al 2014, mentre la popolazione diurna è cresciuta di almeno 15 000 unità. Ogni turno copre porzioni di città sempre più ampie: la risposta al micro-crimine è inevitabilmente ex post. Senza reclutamento e formazione mirata (cyber-crime, mediazione culturale) le telecamere rischiano di trasformarsi in un gigantesco archivio di colpe a posteriori.
Percezione vs. realtà. L’indice di criminalità del Sole 24 Ore colloca Trento a metà classifica nazionale; scendiamo di qualche posizione, ma non precipitiamo. Tuttavia, l’aumento delle “spaccate” – colpi rapidi a vetrine di bar e negozi, spesso opera di gang itineranti – amplifica il senso di vulnerabilità. Il problema vero non è solo quante denunce, ma quanto velocemente la comunità rielabora il trauma. Qui entra in gioco la politica, perché la paura – diceva Hobbes – è materia prima di ogni dominio.
Che fare? Proposte (e dubbi) dopo il talk-show.
Raddoppiare i vigili? Sì, ma con un chiaro profilo 2025: agenti capaci di lavorare in rete, con software predittivi e conoscenza dei quartieri multietnici. Lo “sceriffo di piazza” alla vecchia maniera funziona solo nelle sagre.
Rigenerare lo spazio urbano. Telecamere nei vicoli bui, certo; ma soprattutto luce, attività serali, coworking che aprano le saracinesche anche oltre l’orario 9-19. Il degrado non è figlio del silenzio? Allora teniamo acceso il brusio civile.
Accoglienza intelligente. Né “porti aperti” né retorica dei muri: un patto provinciale che ripristini l’accoglienza diffusa, con corsi di lingua e tirocinio breve per i richiedenti asilo – costa meno di un altro giro di volante delle pattuglie e produce più legalità.
Cittadinanza attiva. Il volontariato trentino è oro: strumenti digitali (app per segnalazioni rapide) e micro-fondi di quartiere possono trasformare l’allarme del vicino in progetto condiviso, evitando la deriva del “fai-da-te” armato di rabbia.
Trasparenza sui dati. Un cruscotto pubblico, aggiornato mensilmente, con reati, tempi di intervento, esiti giudiziari. Capire la curva aiuta a evitare le curve della propaganda.
In conclusione, la sicurezza non è un vestito prêt-à-porter che il prossimo sindaco potrà indossare al momento dell’insediamento. È, come dire, una specie di danza lenta—un pendolo che oscilla tra “lasciami libero” e “tienimi al sicuro”. Trento, qui, gioca con un jolly mica da poco: un passato di autonomia testarda, di laboratori sociali fatti in casa, e quelle comunità di valle che la solidarietà la mettono in pratica prima ancora di scomodare la parola “solidarietà”.
Eppure, se non rimettiamo in circolo un’idea di città come spazio comune di senso, ogni telecamera diventerà un occhio di vetro, ogni daspo una toppa, ogni statistica un graffio. L’imperativo non è “abbassare il numero dei reati”, è custodire la fiducia reciproca. Senza quella, anche un solo furto diventa l’alibi per una resa collettiva.
“All’uscita dal Grand Hotel, un meteo ancora incerto di aprile disegna riflessi tremolanti sull’asfalto. Un commerciante tira giù la serranda, due mandate per chiudere il negozio; una studentessa mette le cuffie e attraversa la piazza canticchiando, o forse indie, chissà; poco più in là, un agente in pattuglia si stringe il bavero perché il vento a Trento, entra proprio nelle ossa. Nessuno di loro sa ancora chi sarà il prossimo sindaco, ma tutti – in fondo – si pongono la stessa domanda: mi sentirò a casa, domani, nelle vie in cui vivo?”
La politica di oggi ha un mestiere solo—anzi, uno soltanto: far sembrare quel “domani” qualcosa di più di una promessa buttata lì. Il resto – bilanci, delibere, telecamere – è (solo) tecnica di supporto.
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