Mentre le campane del mondo si fanno più fioche – rintoccano a lutto per la scomparsa di Papa Francesco – l’Italia si prepara al 25 Aprile 2025:  ottant’anni di distanza e un pugno di domande ancora incandescenti su libertà, pace e responsabilità collettiva.

 

Là dove il giorno trattiene il respiro. Roma trattiene il fiato: bandiere a mezz’asta, cinque giorni di lutto nazionale. È la stessa aria, gravida di silenzio, che precedette l’alba del 25 aprile 1945. Oggi lo Stato si interroga: come commemorare la #Liberazione80 senza scivolare nel clangore dissonante dell’autocompiacimento? Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – forse costretto a rimandare la tappa genovese del suo “pellegrinaggio laico” tra ossari e sacrari – ricorda che memoria non è nostalgia, ma struttura portante di ogni democrazia fragile.

 

Tra festa e lutto: l’ossimoro che ci inchioda alla storia. La coincidenza fra il lutto pontificio e l’anniversario civile pare un cortocircuito, e invece ci offre uno specchio spietato. Il dolore collettivo disarma la retorica delle parate; costringe a chiedersi se la celebrazione abbia ancora polso – o sia puro carotaggio cerimoniale. La commemorazione, se davvero vuole farsi atto civile, non si esaurisce nell’accendere lumini: esige che si mantenga la ferita socchiusa, perché solo da quella soglia dolente possa filtrare il pensiero. In quest’ottica Milano sceglie un corteo che sfoci fra le guglie gotiche, mentre Roma trasforma San Lorenzo in un laboratorio civico diffuso: lezioni in strada, proiezioni notturne, musica che vibra sotto i murales scheggiati dalle guerre d’oggi.

 

Città‑palinsesto, archivi‑radice. Ottanta luoghi per ottant’anni – carceri, officine, stazioni, scuole –, mappa cartacea e digitale distribuita ai passanti: è l’idea dell’Università Statale di Milano. Lo spazio urbano diventa testo; le sue righe d’asfalto raccontano arresti, scioperi, insurrezioni. All’archivio centrale dello stato, carte ingiallite e fotografie riannodano destini minimi: cucitrici, ferrovieri, studenti che scelsero il rischio dell’insurrezione. È un invito brusco: non c’è libertà di superficie senza radici di sangue e di fango.

 

Contesa di memorie, segno di vitalità. Gli ottant’anni portano anche il loro corredo di revisionismi, vandalismi contro lapidi, equivalenze tossiche fra oppressi e oppressori. Però – direbbe Arendt – la polemica è la linfa della democrazia: se la Resistenza fosse un capitolo morto, nessuno perderebbe tempo a negarla. Che sia dunque benvenuto il dissenso, purché inchiodi tutti a una domanda centrale: di quale libertà parliamo oggi?

 

Il presente che scotta. Basta alzare lo sguardo: la polvere di Kiev, i roghi di Gaza, le ansie balcaniche. L’Europa del 1945 promise che il conflitto sarebbe stato confinato ai manuali; eppure, ai confini orientali cingolati e fossati ridanno senso alla parola guerra. Il 25 aprile ci ammonisce: la pace non è pausa ma processo. Mura, nazionalismi, proclami identitari? Tutto già visto negli anni trenta. La storia non si ripete, ma zoppica in cerchi inquietanti.

 

L’eredità, oggi. Piero Calamandrei paragonava la libertà all’aria: ci si accorge di quanto vale quando manca il fiato. Ecco allora tre impegni – non fiori – da deporre sul sacrario civile:

Scuola – insegnare che la Costituzione non è carta antica, ma atlante in movimento, scritto da ragazzi poco più grandi dei nostri studenti;

Politica – misurarsi sul terreno dell’etica pubblica, non della rissa social: riformare senza tradire;

Europa – ricordare la propria genesi post‑bellica e rifondarsi contro la tentazione degli egoismi di corto respiro.

 

Epilogo: l’alba chiama la vigilia. Ottant’anni fa il paese trovò la forza di rialzarsi. Oggi – fra algoritmi che polverizzano l’attenzione e slogan che sostituiscono il ragionamento – pare di nuovo tentato dalla comodità del torpore. E tuttavia la libertà bussa sempre di notte; chiede occhi aperti, orecchie tese, schiena non piegata.

 

Il 25 aprile 2025 non sarà – non può essere – una vittoria incorniciata: sarà una soglia. Varcarla significa decidere, ancora una volta, tra la leggerezza vigile di chi costruisce ponti e il sonno greve di chi alza muri. E decidere, in fondo, vuol dire trovare ogni giorno il coraggio di dire “sì” e, un istante dopo, domandarsi se sia davvero quello giusto.

Il 25 aprile non è un anniversario: è un promemoria ‑‑ duro, esigente, bellissimo ‑‑ che ci ricorda come la libertà, per non diventare cliché, pretenda la nostra ostinata vigilanza.

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